Sembra davvero che si stiano per affacciare tempi sempre più felici per quei tanti animi ingegnosi solitamente dediti, dietro le loro campagne per il rispetto dei diritti umani e delle libertà religiose ipoteticamente violate in varie parti del mondo, a portar semplicemente avanti delle neanche tanto nascoste strumentalizzazioni politiche contro tutta una serie di paesi considerati non allineati o persino antagonisti al loro Occidente. Come già ben spiegato negli articoli precedenti, dove esaminavamo i casi della Chiesa di Dio Onnipotente (CDO), delle varie organizzazioni uigure e di altri ancora, raramente dietro tali “animi ingegnosi” si può ravvisare del semplice volontariato: non elaborano i loro copiosi studiosi, i loro costanti articoli o le loro contrite conferenze solo per passare il tempo e scacciare la noia, ma perché così prevede il loro lavoro, commissionato da generosi enti governativi e non governativi sparsi tra Europa continentale, Inghilterra e Stati Uniti (con qualche non trascurabile presenza, comunque, pure altrove, dall'Australia al Canada, da Taiwan alla Turchia) che nei loro confronti agiscono come dei veri e propri generosi “mecenate”.
Se la causa dello Xinjiang indipendente, da raggiungersi attraverso una spudorata “macchina del fango” sul trattamento riservato alle popolazioni uigure e kazake, o quella della CDO, da sostenersi per coalizzare il mondo protestante in una Crociata contro la Cina sia dall'esterno che dall'interno, apparivano in questi ultimi anni piuttosto indebolite, a causa del cambiamento di priorità stabilito dalla nuova Amministrazione Biden dal 2020 e di riflesso anche dai vertici europei, ora ci accorgiamo che per tali cause sta per giungere nuovamente il sereno. Il conflitto in Ucraina almeno nell'arco del 2025 dovrà pur finire, o almeno su ciò così propendono certamente più persone oggi che ieri; mentre pure quello contemporaneamente in corso a Gaza, salvo drammatiche novità, rimarrà regionalizzato e difficilmente potrà proseguire a tempo indeterminato. Sebbene si tratti, come dicono molti, di una “terza guerra mondiale combattuta a pezzi”, per gli Stati Uniti è la Cina ancor prima che la Russia o l'Iran la vera e grande nazione antagonista da contrastare in tutti i modi. La guerra americana alla Cina è, a ben guardare, già in corso da tempi non sospetti e quello sul Pacifico, se si evolverà in forma calda ovvero apertamente guerreggiata, sarà solo il conflitto finale; e non necessariamente si giungerà fino a quel punto. La campagna di destabilizzazione della Cina dal suo interno, condotta alimentando movimenti settari ben presto datisi anche al terrorismo, come il Falun Gong, la CDO o le formazioni islamo-fondamentaliste nello Xinjiang, ne sono un perfetto esempio, al pari dei tentativi di “rivoluzione colorata” condotti ad Hong Kong o ancora alle continue tensioni sul Mar Cinese Meridionale e l'isola di Taiwan.
Non poteva dunque mancare all'appello, dopo la CDO e la questione dello Xinjiang, pure quella dello Xyzang-Tibet. Gli ultimi mesi sono stati davvero molto magnanimi verso tutti questi gruppi dediti a speculare sulla “geopolitica delle sette e delle libertà religiose” per fini di stampo meramente politico e strategico, e non hanno tardato a dare qualche soddisfazione anche ai più accaniti sostenitori della causa lamaista e dell'indipendentismo tibetano, riuniti intorno al gruppo buddhista del Dalai Lama e del suo “governo tibetano in esilio” a Dharamsala. Per carità, non è che costoro se la passassero male neppure prima, anche perché quando a Dharamsala erano venuti meno molti fondi da parte di Washington, in quel momento più concentrata sulla CDO, a compensare almeno in buona parte l'emorragia avevano provveduto altri: qualcuno ipotizza, tra i tanti, anche il locale governo indiano del nazionalista Narendra Modi, che con Pechino gioca una complessa partita regionale. Insomma, i loro spazi i sostenitori del Dalai Lama erano riusciti a mantenerli, sia pur più faticosamente, a cominciare dall'Italia dove le loro piazzeforti sono da tempo ben distribuite e radicate. Quando poi lo scorso febbraio Washington è tornata a riaprire i cordoni della borsa, con l'approvazione presso la Camera dei Rappresentanti del “Resolve Tibet Act” che nuovamente lastrica di denaro a fondo perduto le vie politiche e mediatiche che conducono fino a Dharamsala e non solo, per tutti costoro è stato veramente un momento di grande ed intuibile giubilo.
Intorno alla prima decade di aprile, per esempio, presso la Sala Conferenze del Senato si è tenuta un'importante conferenza dedicata proprio alla questione tibetana, dove hanno partecipato alcuni nostri eminenti parlamentari sia di centrodestra che di centrosinistra, ad indicare una perfetta partecipazione bipartisan al sostegno della causa. Per Fratelli d'Italia erano presenti per esempio Andrea De Priamo e Giulio Terzi di Sant'Agata, quest'ultimo in particolare sempre molto sensibile a qualunque argomento caro ad una stretta alleanza con gli Stati Uniti e agli interessi del Patto Atlantico, fosse pure di natura religiosa, come già abbiamo notato in passato; mentre a rappresentare il Partito Democratico provvedeva Ilenia Malavasi, vicepresidente dello stesso De Priamo nell'Intergruppo Italia-Tibet. Alle presenze politiche s'accompagnavano ovviamente anche quelle più confessionali, ma per i “non addetti ai lavori” resta difficile poterne sapere qualcosa di più: dell'evento circolano infatti poche notizie, a testimonianza di un prudente riserbo. L'agenzia “9Colonne”, diretta dal giornalista Claudio Pagliara, corrispondente RAI da New York e ben gradito agli ambienti d'oltreoceano, dà puntuale notizia del convegno con un suo ricco articolo di cui tuttavia concede la lettura solo ai propri abbonati. Non diversamente anche per altre iniziative riguardanti lo Xyzang-Tibet, tema intuibilmente assai caro ai redattori dell'agenzia, come ad esempio il Raduno Europeo tenutosi a Roma lo scorso 10 marzo, organizzato dalla Comunità Tibetana in Italia e dall'Associazione Italia-Tibet, che in ogni caso indicano la rinnovata e ritrovata vitalità che ultimamente connota tutti gli ambienti politici e culturali sensibili alla causa lamaista e tibetana.
Tuttavia qualche dettaglio siamo riusciti a scoprirlo lo stesso, anche perché reso ormai pubblico e come tale accessibile anche al resto della platea nazionale. Non ci meraviglia che nel convegno si sia parlato di “assimilazione forzata dei tibetani alla maggioranza Han”, anche perché è la stessa identica accusa che abbiamo più volte sentito scandire in merito alla linea di Pechino per lo Xyzang-Tibet, così come sullo Xinjiang o sulla Mongolia Interna, e sempre e puntualmente smentita dalle statistiche demografiche: la matematica non è un'opinione, si sa, ma è certamente troppo noiosa per una conferenza rispetto alle narrazioni inquietanti e strappalacrime su presunti genocidi etno-culturali che tra l'altro hanno pure il pregio di promuovere facilmente le proprie cause facendo perno sui facili sentimenti altrui. Nemmeno ci meraviglia, ancora, che si sia parlato di un testo ampiamente screditato come quello di Walt e Boltjies, “Il Tibet Occupato”, che già dal titolo appare infatti tutto fuorché scientifico ed imparziale, per sostenere le ragioni degli indipendentisti lamaisti. Peccato però che questo testo, negando che lo Xyzang-Tibet sia mai stato parte della Cina, mistificando la ricostruzione storica anche per quanto riguarda il suo controllo da parte mongola prima e manciù poi, sia costretto nelle sue stesse pagine a riconoscere come in termini giuridici esso fosse invece parte dell'Impero Cinese, della successiva Repubblica di Cina e così conseguentemente pure della Repubblica Popolare Cinese, che riuscì a provvedere al suo ritorno sotto la propria sovranità dopo la parentesi di scollegamento neocoloniale sostenuto dall'Impero Britannico tra il 1911 e il 1949. Ai più accaniti lamaisti e ai loro amici occidentali potrà piacere o non piacere, ma solo quella breve parentesi di dominazione britannica fu l'unico momento di secessione, peraltro non riconosciuto dalle varie potenze a cominciare dalla stessa Londra, dello Xyzang-Tibet da Pechino.
Tra l'altro, viene da fare qualche piccola ironia, c'è da chiedersi come farebbero gli amici occidentali di questi accaniti lamaisti a farli coesistere ed andar d'accordo con altri loro alleati, come quelli che da Taipei rivendicano la sovranità su tutta la Cina continentale, considerandosi “unica Cina” nella forma della Repubblica di Cina ereditata da Chiang Kai-shek riparatosi nel 1949 nell'isola di Taiwan. Dopotutto costoro rivendicano a sé, come unica e vera Cina, tutto il territorio della Repubblica Popolare compresi quindi lo Xyzang-Tibet e lo Xinjiang: gli indipendentisti lamaisti e uiguri che ne pensano? E i loro amici occidentali, che s'intrattengono amorevolmente con tutti e tre, ugualmente, come pensano di comportarsi qualora si trovassero in una conferenza a cui partecipassero tutti quanti, magari perdendo le staffe e chiedendogli ad un certo punto da che parte stanno? Sarebbe certamente una situazione molto imbarazzante. Dev'essere per questo se ad un certo punto, per tagliare la testa al toro, da Washington si sono inventati pure l'indipendentismo taiwanese, nelle mani del Partito Democratico Progressista, così tutti ciascuno per conto proprio aspirano all'indipendenza e non si contendono ciò che ricade nelle aspirazioni indipendentiste altrui: senza dubbio una soluzione più rassicurante dei settori più nostalgici del vecchio Kuomintang. E così pure tutti gli altri “amici occidentali”, compresi gli “animi ingegnosi” di cui parlavamo al principio dell'articolo, hanno potuto tirare un sospiro di sollievo, e rimettersi più volonterosamente al lavoro.