La cerimonia d'apertura dei Giochi Olimpici di Parigi ha destato non pochi clamori, esponendo il grado di polarizzazione dell'odierna società occidentale su tematiche un tempo certamente più unificanti quali il senso del sacro e del pudore o ancora il rispetto dell'arte. In generale, lo scontro a cui abbiamo assistito tra difensori e detrattori dello spettacolo d'inaugurazione è qualcosa che va ben oltre il semplice contrasto tra vecchie e nuove idee, o cultura ed incultura, e via dicendo. La tematica, indipendentemente dalla consapevolezza o meno di quanti si sono accapigliati nel dibattito, è purtroppo ormai più ideologica che d'altra natura.
I più si sono soffermati sul tenore delle coreografie, se fossero di buono o cattivo gusto, ma questo ha fatto perdere di vista il più importante o quantomeno uno dei più importanti tra tutti i temi che ne erano coinvolti, il rispetto dell'altrui senso del sacro. Poco importa se il soggetto a cui facevano riferimento gli artisti fosse “L'Ultima Cena” di Leonardo da Vinci o il “Banchetto degli Dei” di Jan Harmensz van Bijlert, o forse qualcun altro ancora. L'organizzatore dell'evento, Thomas Jully, nello smentire i critici, non è stato dei più convincenti: da artista poco noto prima della cerimonia inaugurale dei Giochi Olimpici, per ideare lo spettacolo ha fatto riferimento ad un altro artista poco noto quanto lui, e alla sua opera, ma proprio per questo avrebbe avuto un motivo in più per informare il pubblico prima anziché dopo: altrimenti troppo chiaro diviene l'intento di volerlo scandalizzare per farsi gratuita pubblicità oltre la sua già naturale misura, su tematiche tuttavia troppo sensibili e divisive come quelle del sacro e della morale.
Chi si è chiesto se anziché la cerimonia d'apertura dei Giochi Olimpici fosse un altro evento a carattere “woke”, termine oggi divenuto noto a tanti e che indica il pensiero neoliberale di matrice anglosassone giunto al suo parossismo, come ad esempio l'Eurovision Song Festival, non ha forse avuto tutti i torti: le Olimpiadi non sono una gara artistica o canora relativa al solo panorama europeo, ma il più importante evento sportivo a livello internazionale, aperto alla competizione di sportivi da tutto il mondo. Questa differenza è ben più che sostanziale, perché la cerimonia d'apertura concepita da Thomas Jully risultava probabilmente più azzeccata proprio per l'Eurovision, festival musicale di rottura dei vecchi tabù morali europei all'insegna dello spirito woke, che per le Olimpiadi, seguite da cittadini di ogni paese del mondo: e tra costoro gli europei e gli occidentali costituiscono, numericamente e percentualmente, una ben modesta minoranza.
Insomma, le Olimpiadi non erano forse il miglior contesto per una provocazione artistica o culturale, perché il modo di reagire a certe volute provocazioni morali cambia da una civiltà all'altra, da un paese ad un altro, tra una cultura religiosa e l'altra. Spesso l'ideologia woke fa perno su una domanda retorica: “come reagirebbe una persona con un'altra identità dalla mia se dicessi o facessi questa determinata cosa?”. Ma è una domanda che limita soprattutto a questioni come l'identità sessuale o di genere, quando invece dovrebbe rivolgerla anche a molte altre questioni come l'identità religiosa o culturale. Una buona domanda che gli organizzatori di quella cerimonia avrebbero dovuto farsi poteva quindi essere: “come reagirebbe un musulmano di un paese mediorientale o subsahariano vedendo il nostro spettacolo?”. Se davvero costoro hanno creduto che anche fuori dall'Europa il modo di reagire ad una cerimonia così concepita potesse essere analogo e privo di strascichi, allora vuol dire che hanno dimostrato quel tipico provincialismo di un Occidente ormai sempre più proiettato verso un neoliberalismo woke protratto agli estremi, e che pure al suo interno incontra forti contestazioni: più che una provocazione, una brutta prova di presunzione.
L'intento era, secondo la regia, d'indurre i paesi meno avanzati nelle tematiche sessuali e di genere a ridiscutere le proprie politiche sociali in materia, ma col rischio semmai di approdare ad un risultato opposto. Simili messaggi, risultando tanto invadenti ed imprevisti, possono solo portare ad un inasprimento dell'intolleranza nelle società di molti di quei paesi e a rimarcarne ancor di più un'ostile divisione culturale nei confronti di un Occidente ormai da lungo tempo accusato di autoreferenzialità, egoismo e saccenteria. Si è trattata, insomma, dell'ennesima lezione non richiesta e non gradita da parte di un Occidente che sempre più risulta, per tre quarti del mondo, irrispettoso e prevaricante.
Eppure le cerimonie d'inaugurazione dei Giochi Olimpici tenutesi prima di Parigi 2024 si sono sempre contraddistinte per l'avere ben altro tenore, qualunque fosse il paese in cui si svolgessero. Guardando solo all'ultimo trentennio, Barcellona nel 1992, Atlanta nel 1996, Sydney nel 2000, Atene nel 2004, Pechino nel 2008, Londra nel 2012, Rio de Janeiro nel 2016, e Tokyo nel 2020, quest'ultima tenutasi poi nel 2021 a causa della contemporanea pandemia da Covid. In nessuna si videro mai certe volute, intenzionali provocazioni: eppure nella maggior parte dei casi esse si tennero in paesi occidentali o di cultura occidentale, e il ricordo che lasciarono di sé fu sempre tale da unire più che da dividere. Nell'ultimo quarto di secolo, tra Sydney, Atene, Pechino, Londra, Rio e Tokyo abbiamo potuto vedere un discreto assortimento di culture e continenti, e tutte queste manifestazioni si sono contraddistinte per delle cerimonie d'apertura elevate e solenni, intrise di un alto rispetto sia per i valori altrui che per quelli comuni, e soprattutto ben rappresentative della cultura e della storia nazionale del paese che le stava ospitando. Tutti ricordano con una certa emozione, solo per fare un esempio, le cerimonie di Pechino o di Londra; e parliamo di due realtà geograficamente agli antipodi.
Non è stato invece così per Parigi, dove l'eleganza di una Pechino proiettata verso il futuro o la festosa nostalgia di Londra per la sua antica rivoluzione industriale non hanno trovato una degna risposta in uno spettacolo che mostrasse al mondo la grande storia della Francia e la rendesse graditamente conciliabile con l'interesse della platea. A sottolineare ulteriormente una frattura non soltanto culturale ma anche politica col resto del mondo, la scelta non proprio felice di continuare ad alimentare l'esclusione dalle competizioni agonistiche degli atleti russi e bielorussi, perché identificati come rappresentanti di realtà in guerra con l'Occidente, ovvero “dalla parte sbagliata della storia”. Ma, guarda caso, quei tre quarti di mondo che non hanno gradito certe gratuite e non richieste provocazioni e “lezioni di civiltà” dall'Occidente, sono anche quegli stessi tre quarti di mondo che in grande parte, nel conflitto tra Occidente e Russia, non hanno grandi dubbi nello schierarsi proprio con la seconda. E del pari anche per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese: dopotutto, anche Israele sta facendo una guerra, e i suoi atleti diversamente da quelli russi potevano liberamente partecipare ai Giochi.
Anche questo è un aspetto probabilmente molto più sentito in molte altre parti del mondo che qua in Europa o in Nord America. L'Occidente appare a questi tre quarti del mondo come un ipocrita dispensatore di “doppi standard” in base ai quali Israele può partecipare alle Olimpiadi perché paese alleato in guerra contro un Medio Oriente non più del tutto controllabile e fondato intorno ad un'altra identità, islamica; mentre la Russia non può parteciparvi perché in guerra contro la NATO, ovvero contro quell'istituzione che cementa i vari paesi occidentali forse più efficacemente di quanto non faccia la discutibile ideologia woke. E' un tema complesso, e non mancheremo di tornarne a parlare.