Guardando alla sola regione Veneto, la regione simbolo del Nord Est ed una delle regioni trainanti per l’economia italiana in termini di PIL ed innovazione, si possono notare molti elementi a dir poco curiosi riguardanti la compenetrazione fra interessi ed imprenditorialità italiane e cinesi. Un articolo pubblicato poco tempo fa descrive con una certa dovizia di particolari la questione, partendo proprio dall’importanza del rapporto economico fra il Veneto e la Cina, a cui contribuisce non poco la comunità cinese locale, finendo poi con l’esaminare i risvolti culturali di tale relazione, sempre più stretta ed importante. Un gruppo finanziario di Hong Kong, per esempio, è entrato nel capitale di una solida banca locale, il Banco delle Tre Venezie, e subito è stata tirata fuori, non a caso, la vecchia storia dei “Panama Papers”, per indicare una certa opacità del gruppo in questione. Una certa diffidenza insita nel mondo politico e culturale italiano verso la Cina fa sì che l’ingresso di un gruppo cinese come PGA Investment, parte di Project Group Asia, venga visto come un’intrusione o una colonizzazione, anziché come un ben più chiaro e concreto investimento dall’estero. Del resto, vorremmo sempre che l’Italia attirasse più investimenti dall’estero, ma quando questi capitali appartengono a nazioni viste con una certa ostilità, come la Cina, tutto cambia e si cominciano ad alzare le barricate. Viene allora da pensare: gli investimenti dall’estero vanno bene solo se provengono dall’America? Viene fatto poi notare come, le acquisizioni cinesi in Veneto, siano state almeno una quarantina. Per esempio Shenzhen Grandland ha speso 467 milioni per acquisire il controllo di Permasteelisa di Vittorio Veneto (TV), leader mondiale nelle facciate architettoniche in vetro ed acciaio. Il gruppo Wanbao, invece, ha acquisito ACC di Belluno, maggior produttore italiano di compressori ermetici per la refrigerazione domestica: viene però fatto notare come, poco dopo, vi siano state anche novanta lettere di licenziamento, quasi a voler dire che “i cinesi vengono in Italia per portarci via tutto, non certo per darci il lavoro”. Ma non viene fatta luce sulla precedente gestione, che questi licenziamenti li aveva già deliberati e, soprattutto, provocati con le sue scelte industriali. Ancora, si parla di Clivet, specializzata nelle pompe di calore per gli impianti di climatizzazione, oggi all’80% nelle mani dei cinesi di Medea, o di QRGB in Valpolicella che lavora il marmo per la cinese Rykadan Capital. Poi c’è la vicentina Prima Srl al 51% in mano a Jilin Alight, colosso nelle forniture per auto, o Goobaby International che da due anni gestisce Columbus Trading, specializzata nei prodotti per bambini, senza infine dimenticare Gimatrade Vicenza, la cui produzione di ferramenta industriale ha attirato AGIC Capital, che ne ha acquisito il 100% delle azioni. Si fa notare come, in Veneto, secondo dati risalenti al 1° gennaio 2018, fossero registrati almeno 34.633 cinesi, una vasta comunità spesso non sempre vista di buon occhio da una parte del ceto medio veneto, che tuttavia non ha mai fatto troppi problemi quando si è trattato di affittare ai suoi membri i propri capannoni, ad altissimo prezzo. Come percentuale siamo al 7,1% di stranieri residenti, leggermente superiore rispetto alla media nazionale, del 7% tondo. Le aree con una maggior presenza di cittadini cinesi, sempre stando alle statistiche date dai censimenti, sono le province di Padova e Treviso, insieme al Polesine, dove costituiscono il 15% della popolazione straniera, concentrati in particolare fra le campagne e il Delta del Po. Nel Veneto dove i vecchi contadini e mezzadri di qualche decennio fa si improvvisarono imprenditori, con un successo clamoroso e crescente, i cinesi si sono integrati bene, perché bene o male ne condividono il medesimo spirito imprenditoriale e la tanta, ed indiscutibile, voglia di lavorare. Del resto negli anni della crisi le imprese sono diminuite del 2%, mentre quelle a titolarità cinese sono cresciute del 20%. In un quadro generale che ha visto l’occupazione perdere in Veneto circa 11mila posti di lavoro, quella garantita dalle aziende cinesi, che oggi cominciano ad assumere anche lavoratori italiani, è salita di duemila unità. Inoltre, secondo un rapporto diffuso dal Ministero del Welfare nel 2017, la presenza della comunità cinese non soltanto in Veneto ma in tutta Italia ha queste caratteristiche: 50.737 imprese individuali concentrate fra Lombardia e Toscana, con un’incidenza che tuttavia sale all’11% nella regione della Serenissima; sui 300mila cinesi residenti in Italia, il 45% ha meno di trent’anni; 7.340 studenti stranieri presenti nel nostro paese sono cinesi, secondi per numero dopo gli albanesi, la cui provenienza geografica è certamente a noi più vicina; 1.385 cinesi ricevono pensioni assistenziali dall’INPS; infine, le rimesse di questa vasta comunità verso la Cina ammontano a 237,5 milioni di euro, in netto calo rispetto ai 2,5 miliardi del 2011, a testimonianza che molti cinesi hanno deciso di ritornare in Patria, per godere della locale crescita economica e delle relative opportunità da essa offerte, mentre chi resta in Italia non ha più la necessità di mantenere o aiutare i parenti residenti nella Repubblica Popolare. Da questi dati, una parte del mondo culturale e politico italiano ha dedotto che Pechino usi la presenza cinese in Italia come uno strumento d’influenza, addirittura di “soft power”. Certamente, avere una comunità di cittadini cinesi in Italia costituisce per la Cina un importante vantaggio, anche a causa del grande legame che buona parte di essi ancora mantengono con la madrepatria; ma tale ragionamento, sempre per le stesse ragioni, potrebbe essere fatto dall’Italia pensando ai suoi cittadini andati a vivere in America o nel resto d’Europa, e che tuttavia ancora dopo generazioni rivendicano orgogliosamente la loro italianità. Di per sé, anche questo elemento non costituisce dunque un pericolo per il nostro paese, ma piuttosto un’opportunità: la Cina e l’Italia sono due grandi paesi, con importanti economie ed infinite capacità di rigenerarsi di volta in volta, dopo ogni problema vissuto, e la loro storia lo testimonia. Una sinergia fra queste due civiltà, pertanto, può soltanto essere di reciproco beneficio tanto per gli italiani quanto per i cinesi: basta soltanto gestirla con trasparenza ed equilibrio. Proprio questo, forse, è il problema della classe dirigente italiana, sia essa politica od intellettuale: la Cina, diversamente da altri paesi, viene infatti vista come una minaccia, come un paese che ci vuole conquistare. Basti pensare anche alle polemiche che molti politici ed intellettuali italiano fanno in merito alla presenza cinese in Africa, giudicata colonialismo: quelle stesse persone non usano i medesimi termini per gli Stati Uniti, e spesso nemmeno per potenze coloniali storiche come la Francia o l’Inghilterra. Se si tratta di una distrazione, vuol dire che ci troviamo di fronte ad un grave problema d’ingenuità o di approssimazione storica e culturale; altrimenti, si può soltanto pensare che si tratti di malafede. In tutta questa diatriba, anche i gemellaggi fra città e persino le collaborazioni culturali fra Italia e Cina vengono visti come fumo negli occhi: nel 2008, per esempio, è stato firmato l’accordo di cooperazione fra l’Università veneziana di Ca’ Foscari, la Capital Normal University di Pechino e lo Hanban. L’anno successivo, nel 2009, il rettore dell’Università di Padova, Giuseppe Zaccaria, ha quindi incorporato un altro Istituto Confucio, d’intesa con l’Università di Guangzhou. Anche gli Istituti Confucio sono stati ben presto visti come strumenti di penetrazione dell’influenza cinese nel nostro paese, sebbene come sia fin troppo noto essi abbiano posizioni politiche e culturali decisamente molto neutrali. Parlando proprio degli Istituti Confucio e della loro visione della libertà e della critica, Simone Pieranni di China Files, in particolare, ha espresso così la sua opinione: “Ci sono temi che rimangono tabù. Taiwan è ancora oggi descritta come “l’isola più grande della Cina” ed è bene evitare di menzionare gli argomenti che Pechino ha destinato all’oblio: Tien’anmen, l’indipendenza del Tibet o il Falun Gong, per esempio”. In poche righe, come vediamo, quella che è indubbiamente e notoriamente una delle testate più sinofobe del panorama italiano (pur con l’accortezza di mascherarsi, invece, dietro una grande ed equilibrata conoscenza del mondo cinese, in certi casi persino amichevole) ha elencato i soliti tre elementi con cui un certo tipo di propaganda politica e culturale occidentale attacca da sempre la Cina. Facendo sempre più fatica ad ingoiare il rospo di una Cina che ormai ha di fatto sottratto all’Occidente ed in particolare agli USA, sua nazione egemone, la leadership dell’economia e in buona parte anche della politica mondiali, i più fedeli lealisti e sostenitori del vecchio ordinamento mondiale a guida occidentale non possono fare altro che ricorrere sempre più massicciamente all’arma della propaganda e della disinformazione. In questo senso, anche una pericolosa setta come il Falun Gong o Falun Dafa, definita comprensibilmente “maligna” dalle autorità cinesi a causa di numerosi reati (dal terrorismo alla distruzione fisica e psichica di molti suoi membri) può a questo punto venir assoldata alla loro causa, in virtù delle sue attività palesemente anticinesi. Lo stesso discorso, ovviamente, vale anche per un’altra pericolosa setta di provenienza cinese, e che ha cominciato a mettere radici nella comunità cinese pur trovando forti appoggi e comprensioni anche negli ambienti italiani, quale la Chiesa di Dio Onnipotente. Anche in questo caso, fanno molto riflettere le contiguità con una parte del mondo culturale, accademico, intellettuale ed associazionistico del nostro paese, tutti ambienti sempre e comunque fortemente legati anche a fette importanti e determinanti del nostro mondo politico. E’ quasi inutile dirlo, ma pure in questo caso la comune ostilità di tutte queste realtà alla politica di Pechino e ai suoi governanti rappresenta il collante principale, alla base di più profondi e preoccupanti sodalizi e collaborazioni.