Lo scorso venerdì 21 luglio alcuni militanti del Falun Gong hanno tenuto una piccola concentrazione nel centro di Roma, dinanzi all'Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese, per commemorare l'evento del 20 luglio 1999. Tale data per tutti loro è fortemente simbolica perché a partire da quel momento la setta venne messa al bando dopo gravissimi episodi occorsi soprattutto a partire dal 1995 e che ne avevano messo in luce la pericolosa natura sovversiva nei confronti dell'ordine pubblico, a tacer degli immensi danni psicologici su molti suoi adepti che avevano finito col compiere anche gravissime lesioni a sé e ad altre persone.
Fino a quel 1999 vi erano state tutte le possibilità, per il movimento, di reinserirsi pacificamente nel tessuto civile, se solo le sue intenzioni fossero state realmente costruttive. Ma il suo fondatore, Li Hongzhi, aveva rifiutato ogni collaborazione con la Società di Ricerca Scientifica sul Qigong in Cina (SRQC), organizzazione che a quel tempo riuniva le varie scuole di Qigong del paese, così come con le altre istituzioni nazionali come la Commissione Nazionale dello Sport, che inizialmente avevano manifestato un interesse verso le pratiche della setta, considerandole non pericolose o comunque analoghe a quelle degli altri gruppi di Qigong presenti in patria. L'espressa spiegazione che già allora Li Hongzhi aveva rilasciato era quella che il suo Falun Gong “non cercava affatto di comprendere il Qigong, ma voleva solo trarne un guadagno economico”, come riportato anche dai ricercatori Noah Porter e Danny Schechter. Era il 1996 e la sfida del movimento a tutto il sistema paese era appena partita.
Non ci volle molto perché si manifestassero altri gravi episodi negli anni successivi, in particolare nel 1998 e 1999, come le manifestazioni a Tianjin e a Zhongnanhai, dove non mancarono anche episodi di violenza nei confronti di altri passanti, oltre a minacce contro esponenti del mondo accademico, politico e giornalistico. La messa al bando del 20 luglio 1999 era dunque più che comprensibile, anche perché stavano ormai assommandosi una serie di gravi casi relativi ad abusi che molti adepti avevano subito all'interno della setta e che andavano purtroppo ben oltre il semplice sfruttamento economico. Le conseguenze più marcate, almeno dal punto di vista dell'ordine pubblico, si videro soltanto due anni dopo, il 23 gennaio 2001, allorché cinque praticanti del Falun Gong improvvisamente si diedero fuoco in Piazza Tienanmen a Pechino dove s'erano poco prima radunati.
Nel frattempo la politica e i media occidentali avevano colto la palla al balzo, intuendo che il Falun Gong potesse rappresentare per loro una ricca occasione per accampare nuove ingerenze negli affari interni della Repubblica Popolare Cinese, e del resto già in precedenza qualche abbozzo tra costoro e il gruppo di Li Hongzhi non era certo mancato. Tuttavia da quel momento, soprattutto in alcuni paesi occidentali, la pubblicità e le campagne di simpatizzazione per il Falun Gong hanno cominciato letteralmente ad esplodere, coinvolgendo un sacco di nuove persone, stavolta occidentali, che hanno iniziato ad aderire alle sue pratiche. Molte di loro, poi, si sono distanziate dal movimento, non trovandolo pienamente rispondente alle loro aspettative; ma altre, invece, ne sono rimaste letteralmente risucchiate iniziando a sviluppare da allora un rapporto praticamente simbiotico con la setta. In Italia, diversamente da altri paesi europei, s'è registrato il maggior numero di defezioni per il Falun Gong, che dopo un primo esordio apparso molto promettente nei numeri e nelle percentuali di crescita ha manifestato anche un altrettanto rapido sgonfiamento. Da allora, e sono passati ormai anni, il Falun Gong continua a vivacchiare con piccoli numeri e con partecipanti spesso temporanei per periodo di adesione, tolti i pochi fedelissimi ormai suoi decani.
Tant'è che il capannello visto a Roma davanti all'Ambasciata faceva una ben magra figura: ad occhio, forse poco più di trenta persone, tra le quali si contava una discreta componente proprio di quei “fedelissimi” giunti anche dalle altre città italiane come Milano o Firenze, ed infine un po' di membri della nota associazione "Nessuno Tocchi Caino", ben apparentata coi Radicali, ovvero con un gruppo politico che da sempre sposa con massimo trasporto ogni causa anticinese come quella del Falun Gong, e non solo. Non mancava neppure un piccolo esponente politico locale, evidentemente trascinato in una novità a cui gentilmente aveva acconsentito senza però averne probabilmente una chiara conoscenza. Quasi tutti con le loro magliette gialle, per dare l'idea di far tutti parte della setta, anche se come vediamo siamo ben lontani dal vero. In una grande città come Roma, capitale d'Italia, con una popolazione che raggiunge quasi i tre milioni di persone, un numero del genere appare ben lontano dal poter apparire particolarmente incisivo. Anche perché a Roma, praticamente ogni giorno, si tengono manifestazioni e presidi ben più partecipati, per le questioni più disparate, indipendentemente che le si possano condividere o meno.
Scarsa ovviamente anche la copertura mediatica, praticamente limitata solo ad un giornale online non certo diffuso o popolare come altre grandi testate nazionali o anche soltanto locali, e che ha rilanciato i consueti luoghi comuni raccontati dalla setta e dai suoi sostenitori. Pure questo, rispetto al passato, appare come un modesto successo per la setta mossa dal perenne bisogno di garantirsi una qualche visibilità, e conferma la tendenza discendente del Falun Gong avviatasi ormai da diversi anni: in passato i media che ne avrebbero parlato, e che infatti ne parlavano, erano parecchi e tra di essi spiccavano anche nomi dei più celebri. Ora, invece, anche questo è soltanto un pallido ricordo.